L’uomo-bucato: la femmina (Gen 1, 26-27)

La Toràh è la lingua ebraica di Dio: egli parla e qualcuno traduce quei suoni in lettere che si muovono sulla pagina da destra a sinistra.

Il racconto con cui il libro prende inizio è quello giunto a noi con il titolo Genesi ma che nella sua lingua d’origine suona Bereshìt ossia “In principio”. È la grande storia della creazione, il racconto di un Dio che fa il mondo e tutto ciò che vi dimora, uomo incluso, l’adàm, un sostantivo che nelle nostre espressioni confuse è diventato nome proprio scritto con la maiuscola nel battesimo di neonati in lacrime.

Questa esemplare creazione si trova abilmente descritta ai versi 26 e 27 del capitolo primo che io leggo così: «E disse Elohìm: “Si faccia uomo in immagine nostra, come somiglianza nostra. […]” E fece Elohìm l’uomo in immagine sua; in immagine di Elohìm fece lui; maschio e femmina fece loro [1]

Zakàr u-nqevà barà otàm, dètta quel Dio all’anonimo scriba che raccoglie e custodisce la forza del suo idioma. Zakàr u-nqevà, “maschio e femmina”, questo è ciò che egli pronuncia, e le sue parole, se prese alla lettera, non significano altro. Ma la lingua ebraica è un meraviglioso gioco di scatole cinesi, ne tiri fuori una e ti accorgi che quella ne contiene un’altra, poi un’altra ancora.

Zakàr si traduce con “maschio”, tuttavia la sua radice tri-consonantica (zkr) è quella dell’omonimo verbo zakàr che per noi è “ricordare, menzionare” e, nelle sue forme derivate, anche “essere ricordato, richiamare alla memoria, rievocare”. Nelle intenzioni di Elohìm, il maschio è custode di un ricordo, è memoria, tradizione. Grazie a lui, la storia e la rievocazione di questo inizio sarà assicurata di generazione in generazione.

Stesso destino ha il termine nqevà/femmina: gli si solleva il velo e ne si scopre tutta la bellezza. La radice tri-consonantica nqv da cui il sostantivo deriva, è quella del verbo naqàv che nella nostra lingua equivale all’azione del “bucare, forare” e, amplificando, addirittura “trafiggere”.

«La femmina è un buco», si potrebbe banalmente sintetizzare, ma con ogni probabilità, anche per lei i propositi di questo creatore di cose e di parole non erano così modesti. Infatti, basta cercare soltanto un po’ per accorgersi che dietro la stessa radice verbale si cela un altro interessante sostantivo, nèqev.

Nella meravigliosa lingua dei popoli semitici esso è usato per indicare la “mina”, una moneta d’oro o d’argento di un certo valore e, per estensione, un prezioso lavoro di oreficeria. In altre parole, è come se il Dio degli Ebrei avesse pensato ad un buco prezioso, ad un foro elegante, ad un anello, un’armilla o un diadema, e poi avesse creato la femmina di adàm/uomo.

Così, senza nessun altro sforzo, la femmina è creata. In un solo atto e senza alcun dolore, l’adàm è costituito in zakàr e nqevà, maschio e femmina. Con un solo atto Elohìm fa che la sua più importante creazione, la specie umana, veda la luce perché memoria e gioiello diventi.

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[1] La melodia dell’ebraico di questi due versi è pressappoco questa: Va-iòmer Elohìm: «Naasèh adàm be-tzalmènu ki-dmutènu […]» Va-ibrà Elohìm et-ha-adàm be-tzalmù; be-tzèlem elohìm barà otò. Zakàr u-nqevà barà otàm.

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