Superbia philosophiae

Il passo del settimo capitolo del libro XII della Metafisica (1072 b 14-16) in cui Aristotele paragona le nostre misere esistenze a quella meravigliosa ed eccellente (aríste) del Primo Motore Immobile, si legge come un insulto.

L’arroganza della filosofia che si fa beffe dell’uomo comune agitandogli in faccia quella sostanza eterna, immobile e separata che, senza ritegno, chiama Dio è veramente insopportabile. Da tali cose si intuisce la sua vile protervia, il suo vigoroso disprezzo per tutto ciò che è umano e di cui essa, diciamolo pure, se ne fotte.

È da subito che questa presuntuosa disciplina ha imparato a osannare la grandezza della natura, la magniloquenza dell’infinito, i superlativi attributi della forza e del potere. In mani sbagliate, questa sua innata debolezza ha causato catastrofi mostruose.

Se dunque Dio si trova in quella «perenne condizione di felicità in cui noi ci troviamo talvolta (poté)», insiste Aristotele nello stesso paragrafo e con la medesima insolenza, «tutto ciò è meraviglioso». A noi, invece, squallide creaturine, insignificanti sostanze corruttibili e mortali, deve bastare quello che rimane, intende costui.

Perciò, gli avanzi lasciati da Dio sono tutto ciò di cui possiamo disporre e di cui dobbiamo accontentarci. Per il resto, si prende quel che c’è: qualche effimero piacere, un’anodina soddisfazione, gli affanni di una vita stracca e piuttosto breve (mikrón chrónos).

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