

Da qualche parte, un giorno, devo aver capito che la frusta dei sensi non schiocca sulla carne viva della mia coscienza ma vi rimbalza docile e indolore.
Nelle solitudini che cerco, resto ad ascoltarmi, mi apposto a origliare, ma le frasi da romanziere che ascolto sono improbabili mugolii, singulti o incomprensibili farfugli costantemente interrotti da un ordinato ossario di pericolosi silenzi.
Ho una bocca arsa dall’acre fumo di toscano e una lingua affetta da altri idiomi. Una lingua straniera irriducibile a scrittura da romanzo, da cui non ricaverebbe nulla né il poeta né il facitore di storie.
L’ho affilata al verbo della filosofia e l’ho dotata di un lessico con cui, tuttavia, non riesco a comunicare neppure con le persone che ogni giorno, involontariamente, subiscono l’accidia delle mie parassitarie attività letterarie. Una lingua che non si lascia addomesticare per storie da narrare al fuoco di un camino e non rassicura, addormentandoli, figli nelle culle o nipoti sulle ginocchia della vecchiaia.
Mi rendo conto, il richiamo della scrittura arriva quando arriva, ma il dardo appuntito che ferisce chi ha dimestichezza con questo genere di manie, a me passa di striscio. Sento il suo fischio che fende l’aria prossima alle mie orecchie ma non vi obbedisco come il cane fedele ai comandi del padrone.
Piuttosto lascio che le parole sedimentino, che trasudino quella sanie purulenta con la quale immagino di costruire disgustose opere letterarie o breviari di dissolute tristezze.
Devo aver capito di non essere uno scrittore quando mi sono sorpreso immobile, in attesa di un tempo e di ragioni a venire. Dalle pause ho imparato soltanto a decifrare i suoni dei concetti che con rimbombo circolare rimbalzano nella mia testa, eppure non ho mai avuto fretta di esprimerne i contorni a caratteri alfabetici. Attendo che siano maturi e solo quando ritengo che il frutto sia da cogliere, tendo la mano al ramo.
So anche che aspettare oltre un certo tempo significa consegnarli all’oblio perenne, ma cosa me ne importa. Quei pensieri che se ne vanno senza alcun riguardo, non meritano d’essere ricordati.
Che miseria la scrittura. Segnare, appuntare, descrivere, registrare soltanto per succhiare un po’ d’esistenza ad una vita insignificante che arriva con quel chiasso della maleducazione e va via quando le pare.
Nessun profeta sentì mai la necessità di urlare a lettere scritte le proprie visioni o gli anatemi. Chi lo fece, scrisse solo sotto dettatura e ne attribuì la responsabilità a qualche dio.
Perché è così: mentre gli dei si manifestano a parole, soltanto gli uomini scrivono. Forse è anche per questo motivo che da qualche parte, un giorno, ho capito che non sarei mai diventato uno scrittore, ma nemmeno avrei avuto un dio di cui trascrivere il fiato per diventarne il nunzio o il suo osannato profeta.