

La sigaretta è un’ipostasi che ha nella durata la sua precaria affermazione. Fumare attinge a un concetto il cui contenuto è spesso irraggiungibile. Soltanto l’atto di aspirare fumo ne rende visibile il contorno incandescente.
La sigaretta non “ammazza il tempo” come non sopprime l’evoluto animale che si fa chiamare uomo. Esattamente non è il fumo a ucciderlo ma la sua perversa illusione di opporsi a quella schiacciante mole di gesti, tic e manie che accompagnano la mesta liturgia del fumare.
L’ossessione che assale chi si porta alle labbra una bionda, non è il robusto e funesto monito stampato sul pacchetto, ma quella di perdere il conto che separa l’ultima sigaretta da quella ormai alla fine ancora stretta tra le dita.
Tuttavia come chi manda giù bicchiere dopo bicchiere non perde tempo a distinguere quelli scolati dagli altri ancora da riempire, così il fumatore non enumera le sigarette che ha avidamente consumato. È la sua disciplina e non vi rinuncia facilmente. Egli sa che la sigaretta non ha singolarità e che difficilmente riuscirebbe a dimostrarne il monismo. L’unità di misura del fumatore è il pacchetto.
L’ultima sigaretta segna il tempo della rivelazione, un tempo messianico che si attende con incredulità e con l’accendino già pronto nell’altra mano.
Sì, dopotutto quello che vedi sbuffare pigro dalla mia bocca non è fumo ma concentrato di nuvole.
Io ho il cagionevole vizio di chi ha invidia del cielo e agogna l’infinito.