Venere al rogo. Riflessioni non richieste sull’incendio della Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto
Non dico (anche se, lo confesso, molti miei pensieri corrono in quella direzione) che il fuoco appiccato alla gigantesca riproduzione della Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto collocata in bella mostra su un’enorme, spoglia e insignificante piazza di Napoli sia stato un bene ma, averla ridotta in cenere, qualunque sia stato il motivo del gesto, carica quell’atto inconsulto di un elevato valore simbolico.
Stracciarsi le vesti (o gli stracci?) perché l’elefantiasi in resina di un’opera già riprodotta in più esemplari ed esposta in numerosi musei dell’orbe abbia preso fuoco mi sembra veramente eccessivo, sebbene l’atto in sé di incendiarla sia quanto meno esecrabile dal punto di vista della pericolosità e della sicurezza dei cittadini. Distruggere un’opera d’arte – questo s’intuisce facilmente – significa cancellarne per sempre il significante ma non il significato al quale, semmai, il gesto, come si diceva, aggiunge qualcosa di più, un plusvalore di senso. Dopotutto, anche Pistoletto non sembra affatto scandalizzato o costernato dall’autodafé che qualche sinistro individuo ha inflitto alla sua Venere. Egli sa bene che adesso alla sua opera è impresso il marchio perenne dell’immortalità ottenuto dal maldestro e impossibile tentativo di cancellarla. Soltanto adesso, oserei dire, la sua Venere è veramente immortale. Perché è quando sono sul punto di sparire (per distruzione, trafugamento, oblio) che le opere d’arte assumono quel valore ultra-simbolico che soltanto l’arte ha come privilegio.
Tuttavia anche un ulteriore aspetto della questione deve essere preso in esame, ed è lo sfruttamento politico dell’arte. E non sto parlando dell’opera d’arte come atto politico dal quale queste riflessioni e la stessa Venere “napoletana” di Pistoletto sono ben lontani. Qui, ciò che intendo, è l’uso spregiudicato e insolente dell’arte al servizio della politica, dell’arte, infine, spacciata come “bene comune”.
L’uso dell’arte come facile espediente demagogico per dare esposizione e visibilità esclusivamente turistiche a città caotiche, pericolose, invivibili o, come nel caso di Napoli, sepolte anche sotto la secolare cenere di contraddizioni e di stereotipi, è veramente raccapricciante. La pretesa di alcuni miopi amministratori locali di caricare l’arte di responsabilità che invece sono soltanto in capo a loro rasenta atteggiamenti di schietta incapacità. Ma anche gli artisti che consapevolmente si prestano a questo gioco d’illusione e vanagloria incutono diffidenza e sospetto. Questi damerini sempre proni e pronti alla chiamata che giunge dai palazzotti di un qualsiasi don Rodrigo non comprendono, forse, che al servizio della politica l’arte scade in didascalia, in manierismo, in puro intrattenimento, in divertissement.
Inoltre, – anche questo va detto – la percezione che si ha di queste estemporanee epifanie artistiche nel malcerto e traballante tessuto urbano in cui talvolta si assiste anche alla chiusura di strade, al transennamento di piazze o a espropriazioni di intere aree pubbliche per dare loro dimora, è quella di un’imposizione, di una violenza, di una arrogante prevaricazione.
Un’accolita di esperti, un manipolo di saggi, una congrega di consiglieri e consulenti interpellata dal politico di turno si scervella per decidere cosa esporre in una piazza brulla o all’angolo di un angusto crocicchio, cosa collocare in un vicolo anonimo o sotto un mesto porticato con l’intento – del tutto inappropriato, si è visto! – della cosiddetta “riqualificazione”, una pia fraus con cui queste menti deboli si mettono a posto la coscienza.
In altre parole, la loro misera intenzione è quella di sopperire a interventi di politica sociale, urbanistica e di decoro con la banale installazione di un’opera d’arte che distragga in fretta dal problema che grava su quel luogo e, in seguito, anche dalla stessa opera d’arte che, nel frattempo, invecchierà di ruggine, di polvere, di graffiti, di guano. Insomma un’arte d’ameublement, da vernice, da svilito intonaco o da semplice toppa sui buchi degli abiti (o degli stracci?) consunti della politica.
Ma il rogo della Venere di Pistoletto, effetto e conseguenza, secondo quanto affermato dallo stesso artista biellese, del “sopravvento di una società stracciona” sulla moltitudine di significati della sua opera, credo possa essere interpretato anche utilizzando un’altra chiave di lettura che si fonda su un sospetto. Napoli, città in perenne disputa con la sua storia, con le sue antiche tradizioni, di cultura meticcia, in atavico e precario equilibrio con quel formidabil monte Sterminator Vesevo sotto il quale strepita, giace e del quale abusa l’ospitalità, città in cui il sacro e il profano, il rito religioso e quello scaramantico convivono contagiandosi in egual misura, non è ancora pronta e disponibile (e forse, per capriccio e indolenza, non lo sarà mai) a sentire come propria, come sua, un’arte che viene da lontano, un’arte che non appartiene alla sua terra, al proprio sangue, alle viscere di Partenope.
Perciò, prima di addentrarsi in altre più profonde analisi, chiediamoci banalmente perché le pur eclatanti, rumorose e pacchiane manifestazioni di cordoglio per la morte di Diego Armando Maradona insieme ai recenti festeggiamenti per la vittoria dello scudetto della squadra di calcio della città siano durati giorni e hanno coinvolto chiunque; perché le variopinte edicole votive dedicate ancora allo stesso campione parteno-argentino non siano vandalizzate o bruciate ma custodite e venerate come sacre reliquie; perché le grottesche esibizioni (anch’esse artistiche) di quella pletora di cantanti cosiddetti “neomelodici” abbiano uno stuolo di ammiratori da far vergognare i loro colleghi nazionali più famosi; perché uomini come Totò, Eduardo, Troisi, Pino Daniele siano adorati come santi e fissati in memorabili icone; perché in una città in cui, sebbene la micro- e la macro-criminalità organizzata facciano quotidianamente sentire il loro peso insopportabile e asfissiante, il prezioso Tesoro di san Gennaro sia stato rubato (e poi immediatamente restituito) soltanto nel celebre film di Dino Risi?
Le riflessioni scritte in questo articolo sono sicuramente non richieste ma hanno il pregio di essere verissime o meglio le leggo e le sento come tali.
La gestione politica di questa città è vergognosa e miserabile. Lei, la città di Partenope, cade a pezzi, sporca, inquinita e incasinata e i nostri rappresentanti credono di distrarci con opere d’arte più o meno affini alla nostra storia disseminate in angoli più oscuri delle opere stesse.
Sarebbe molto interessante approfondire il suo ultimo pensiero.
Perchè Pistoletto al rogo e i neomelodici idolatrati? Povero Pino! Perdonaci.
Già, povero Pino. Ma, anche, poveri tutti.
Grazie per aver letto e lasciato un commento all’articolo.
Un saluto.
Scioccato ed edificato dalla tua analisi lucida quanto impietosa….!
Dici cose che molti hanno pensato, molti che non sarebbero stati in grado di motivare la tua posizione in modo così brillante, e che mai si sarebbero sognati di esprimere per non ” disturbare” il Principe…
Siamo il paese dei consulenti “inventati dal nulla” e superpagati…
Lo hai detto in modo superbo e fuori dai denti…
Il ricorso ad Andersen e alla letteratura per l’infanzia è , ancora una volta, illuminante, caro Enzo,….”…il re è nudo…”
C’è sempre bisogno di un bambino che nella sua immacolata , lucida purezza lo gridi a squarciagola..
Carissimo Antonio, se è pur vero che siamo il Paese “dei consulenti inventati dal nulla”, come dici tu, quello che più mi impressiona sono la pletora di artisti che farebbero carte false per entrare nelle grazie di quei consulenti, e l’arte imposta a tutti i costi, un’arte che, così concepita, invece di elevare, offende e umilia e non può che essere avvertita come estranea e distante. Eppure, nelle convinzioni di qualcuno, dovrebbe essere “riqualificante”.
Grazie assai per essere ritornato a leggere e a commentare i miei solitari vaniloqui.
Un saluto affettuosissimo.