Dell’amore (contributo ad una critica)

Il rapido graffito, l’epistola, la dedica galante, la frase sussurrata tra i denti, sono le tracce di un sentimento ormai totalmente verbalizzato e scadente. La parola, insomma, umilia l’amore. Lo rende fragile ed esposto al ludibrio.

Dell’amore, purtroppo, non si conoscono che manfrine e ossessioni. Soltanto per un attimo il giovane Romeo fu vicino alla verità: «Così è l’amore del quale non provo amore» (W. Shakespeare, Romeo e Giulietta, atto 1°), andava ripetendo prima che la verginella Capuleti lo trasformasse in un balbettante e superfluo figuro.

Il Verbum, il Logos, è ciò che è l’amore per i catechisti: la cosiddetta Parola di Dio con cui essi confrontano quotidianamente le loro miserabili azioni. Finanche il saccente Platone, che pur temeva la parola scritta, non scampò al pericolo di trattare dell’amore per farne letteratura, ma almeno non compilò un manualetto come, invece, il più astuto Ovidio.

Dell’amore bisognerebbe saper tacere e, allo stesso tempo, essere in grado di riconoscerne i sintomi alla stessa stregua di una malattia. A tal proposito, i giovani hanno molto da imparare. Intanto mandino a memoria questo breve viatico: «Crampi, dolori, disperazione: i morsi dell’amore sono come quelli della fame. Stessi muscoli, stesse mucose».

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