Piccola fenomenologia del porto

Ad esclusivo intrattenimento del pubblico in attesa dello spettacolo Anna delle fonde

C’è un punto, tra terraferma e acqua salata, che costringe alla sosta. Non è una semplice fermata né una tappa intermedia, ma un’inattesa interruzione. È una sorta di sospensione – un’epoché salmastra – tra divenuto e divenire. Esso è il confine calcareo tra l’immobile e l’acquatico, qualcosa che assomiglia al bilico, alla vertigine, al salto nel vuoto. 

Chi chiamò tutto questo “porto” (ossia passaggio, entrata, porta), aveva intenzione di minimizzare e fu uomo senza scrupoli. Finse di non sapere che un porto vive di ambiguità e rinunce, rinunciando egli stesso alla verità. Sì, perché un porto non è né luogo né topos ma la consistenza rocciosa di un’utopia. (I signori Moro e Campanella impallidirebbero). È la galleggiante precarietà che sta al limite del nulla, l’instabilità assoluta che i marinai tentano di ormeggiare con nodi di gomene alla solidità delle loro navi. 

Chi dichiara che un porto è riposo, accoglienza di braccia e ricovero di locande, ama la menzogna. Mai imbarcazione, o uomo, sono stati più in pericolo che all’ormeggio di un porto. Anzi, finché andò per mare Agamennone non ebbe sorprese, fu all’approdo che rischiò di sacrificare Ifigenia. 

Ebbene, sarà che nascemmo dall’acqua e che alla terra, invece, come l’essere al nulla, torneremo; sarà che proviamo attrazione per i porti, per la protervia dei due elementi che perennemente si incontrano e si sfidano. Ma una cosa è certa, il viaggio è per spiriti deboli, al porto appartiene la turbolenza dell’ingegno.

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